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Da Weimar a Parigi: Guerra allo Stato di diritto In evidenza

Martedì, 26 Gennaio 2016 18:56

di Giorgio Agamben pubblicato su Le Monde il 27 dicembre 2015 sulla tribuna "Bisogna costituzionalizzare lo Stato d’emergenza?". Tradutto in italiano da Riccardo Antoniani e pubblicato su Il Sole24ore il 24 gennaio 2016.

Depoliticizzazione, rinuncia alla certezza delle leggi, paura: così si negano le libertà per rispondere al terrorismo

Non si può comprendere la reale posta in gioco nella proroga di tre mesi dello stato d’emergenza in Francia, se non la si situa nel contesto d’una trasformazione radicale del modello statale cui siamo avvezzi. Occorre innanzitutto smentire le affermazioni di politici irresponsabili, secondo i quali lo stato di eccezione sarebbe un baluardo per la democrazia. Gli storici sanno perfettamente che è vero il contrario.

Lo stato di eccezione è il dispositivo attraverso il quale i regimi totalitari si sono insediati in Europa. Negli anni che hanno preceduto l’ascesa al potere di Hitler, i governi socialdemocratici di Weimar si erano avvalsi così spesso dello stato di eccezione che si può affermare che la Germania aveva già smesso d’essere una democrazia parlamentare ancor prima del 1933. Dopo la sua nomina, il primo atto di Hitler fu la proclamazione di uno stato di eccezione, che non venne più revocato. Quando ci si stupisce dei crimini commessi impunemente in Germania dai nazisti, si dimentica che si trattava di atti perfettamente legali, poiché il Paese si trovava in stato d’eccezione e le libertà individuali erano sospese. Non c’è ragione di credere che un tale scenario non possa riproporsi in Francia: non è difficile immaginare un governo di estrema destra sfruttare ai propri fini uno stato d’emergenza cui i cittadini sono già stati abituati dai governi socialisti. In un Paese che vive in uno stato d’emergenza prolungato, in cui le operazioni di polizia si sostituiscono progressivamente al potere giudiziario, ci si deve aspettare una disgregazione rapida e irreversibile delle pubbliche istituzioni.

Tutto ciò è ancor più vero in quanto lo stato di eccezione s’iscrive oggi nel processo che sta trasformando le democrazie occidentali in qualcosa che bisogna ormai chiamare “Stato di sicurezza” (Security State, per dirla con i politologi americani). Il termine “sicurezza” si è talmente integrato nel discorso politico che possiamo affermare che le “ragioni di sicurezza” hanno stabilmente preso il posto di quel che una volta s’intendeva per “ragion di Stato”. Benché questa nuova forma di governo non possa più essere spiegata nei termini del moderno Stato di diritto, un’analisi della sua struttura è tuttora mancante. Proveremo pertanto a fissare qualche punto in vista di una possibile definizione.

Nel modello di Thomas Hobbes, che così profondamente ha influenzato la nostra filosofia politica, il contratto che consente di trasferire i poteri al sovrano presuppone la reciproca paura e la guerra di tutti contro tutti e lo Stato è ciò che mette fine alla paura. Nello Stato di sicurezza, questo schema s’inverte: lo Stato si fonda stabilmente sulla paura e deve ad ogni costo mantenerla, perché trae da essa la sua funzione essenziale e la sua legittimità. Foucault aveva già dimostrato che, quando il termine sicurezza appare per la prima volta nel discorso politico francese con i governi fisiocratici prima della Rivoluzione, non si trattava di prevenire le catastrofi o le carestie, ma di lasciarle accadere per poterle poi guidare e orientare verso la direzione ritenuta più conveniente. Parimenti, la sicurezza di cui si parla oggi non mira a prevenire gli atti terroristici (cosa del resto assai difficile, se non impossibile, poiché le misure di sicurezza sono efficaci solo ad attacco avvenuto e il terrorismo è per definizione una serie di attacchi improvvisi), ma a stabilire un controllo generalizzato e senza alcun limite sulla popolazione (di qui, la concentrazione sui dispositivi che permettono il controllo totale dei dati informatici dei cittadini, compreso l’accesso integrale al contenuto dei computer).

Il rischio è qui la deriva verso la creazione d’una relazione sistemica tra terrorismo e Stato di sicurezza: se lo Stato ha bisogno della paura per potersi legittimare, si deve allora produrre il terrore o, quanto meno, non impedire che si produca. Vediamo così degli Stati perseguire una politica estera che alimenta quello stesso terrorismo che devono poi combattere all’interno e intrattenere relazioni cordiali, se non addirittura vendere armi a Paesi che risultano finanziare le organizzazioni terroristiche.

Un secondo punto che è importante definire è il cambiamento nello statuto politico dei cittadini e del popolo, che era un tempo il depositario della sovranità. Nello Stato di sicurezza si assiste a una tendenza inarrestabile verso una depoliticizzazione progressiva dei cittadini, la cui partecipazione alla vita politica si riduce ai sondaggi elettorali. Questa tendenza è tanto più inquietante, in quanto era stata teorizzata dai giuristi nazisti, che definivano il popolo come un elemento essenzialmente impolitico cui lo Stato doveva garantire protezione e crescita. Secondo questi giuristi, c’è solo un modo per politicizzare questo elemento impolitico: attraverso l’uguaglianza di stirpe e di razza, che deve distinguerlo dallo straniero e dal nemico. Non si tratta qui di confondere lo Stato nazista con lo Stato di sicurezza contemporaneo: bisogna però capire che se si depoliticizzano i cittadini, questi potranno uscire dalla loro passività solo se li si mobilita attraverso la paura di un nemico straniero non solo esterno (gli ebrei per la Germania nazista, i musulmani nella Francia di oggi). È in questo contesto che bisogna inquadrare il sinistro progetto di revoca della cittadinanza a coloro che posseggono una doppia nazionalità, che ricorda la legge fascista del 1926 sulla denazionalizzazione dei «cittadini indegni della cittadinanza italiana» e le leggi naziste sulla denazionalizzazione degli ebrei.
Un terzo punto di cui è bene non sottovalutare l’importanza, è la trasformazione radicale dei criteri che stabiliscono la verità e la certezza nella sfera pubblica. Ciò che più colpisce l’osservatore attento ai comunicati ufficiali sui crimini terroristici, è la totale rinuncia alla ricerca della verità giudiziaria. Mentre in uno Stato di diritto un reato deve essere accertato da un’inchiesta giudiziaria, nel paradigma securitario ci si deve accontentare dei comunicati della polizia e dei media che da questa dipendono, due istanze da sempre considerate poco affidabili. Da qui l’incredibile vaghezza e le palesi contraddizioni nelle ricostruzioni affrettate dei fatti, che scientemente eludono ogni possibilità di verifica e assomigliano più a pettegolezzi che a inchieste. Ciò significa che lo Stato di sicurezza ha interesse a che i cittadini – di cui deve garantire la protezione - restino nell’incertezza quanto a ciò che li minaccia, poiché incertezza e terrore vanno sempre a braccetto.

Questa stessa incertezza si ritrova nel testo di legge dello scorso 20 novembre sullo stato d’emergenza, che interessa «ogni persona verso cui esistono seri motivi di pensare che il suo comportamento costituisca una minaccia per l’ordine pubblico e per la sicurezza». È del tutto evidente che la formula “seri motivi di pensare” non ha alcun senso giuridico e, in quanto rimanda solo all’arbitrio di chi pensa, può essere applicata in qualunque momento a qualsiasi persona. Nello Stato di sicurezza, queste formule indeterminate, da sempre considerate dai giuristi contrarie al principio della certezza del diritto, diventano la norma.
Questa stessa imprecisione e questi stessi equivoci li ritroviamo nelle dichiarazioni dei politici secondo i quali la Francia sarebbe in guerra contro il terrorismo. Una guerra contro il terrorismo è una contraddizione di termini, giacché uno stato di guerra si definisce precisamente attraverso la possibilità d’identificare con certezza il nemico che s’intende combattere. Nella prospettiva securitaria invece, il nemico deve restare nel vago, affinché chiunque - all’interno come all’esterno - possa essere identificato come tale.

Mantenimento d’uno stato di paura generalizzato, depoliticizzazione dei cittadini, rinuncia a ogni certezza del diritto: ecco tre caratteristiche dello Stato di sicurezza non certo rassicuranti. Ciò significa, infatti, che lo Stato di sicurezza nel quale stiamo scivolando fa il contrario di quanto promette, poiché - se sicurezza significa assenza di preoccupazioni (sine cura) - al contrario esso alimenta la paura e il terrore. Lo Stato di sicurezza è, d’altra parte, uno Stato di polizia, poiché, escludendo il potere giudiziario, generalizza il margine discrezionale della polizia che, in uno stato di emergenza divenuto norma, agisce sempre più come sovrana. Grazie, infine, alla depoliticizzazione del cittadino, diventato in qualche modo un terrorista in potenza, lo Stato di sicurezza esce dall’ambito della politica che conosciamo in direzione di una zona incerta, dove pubblico e privato si confondono e di cui è difficile tracciare i confini.

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