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I frutti marci dell'autonomia scolastica In evidenza

Mercoledì, 11 Novembre 2015 13:12

 

di Marina Boscaino pubblicato su Micromedia 11 novembre 2015

Proviamo per un attimo ad immaginare cosa direbbe ad esempio Piero Calamandrei se sapesse che l’orientamento per i ragazzi delle scuole medie che devono iscriversi alla scuola secondaria di secondo grado si svolge in un centro commerciale. Siamo a Roma, quartiere Eur.

Parlo di Calamandrei perché fu proprio il padre costituente a formulare, in un indimenticabile discorso del 1950, questa imponente definizione: “La scuola, come la vedo io, è un organo 'costituzionale'. Ha la sua posizione, la sua importanza al centro di quel complesso di organi che formano la Costituzione. Come voi sapete (tutti voi avrete letto la nostra Costituzione), nella seconda parte della Costituzione, quella che si intitola “l’ordinamento dello Stato”, sono descritti quegli organi attraverso i quali si esprime la volontà del popolo. Quegli organi attraverso i quali la politica si trasforma in diritto, le vitali e sane lotte della politica si trasformano in leggi. Ora, quando vi viene in mente di domandarvi quali sono gli organi costituzionali, a tutti voi verrà naturale la risposta: sono le Camere, la Camera dei deputati, il Senato, il presidente della Repubblica, la Magistratura: ma non vi verrà in mente di considerare fra questi organi anche la scuola, la quale invece è un organo vitale della democrazia come noi la concepiamo. Se si dovesse fare un paragone tra l’organismo costituzionale e l’organismo umano, si dovrebbe dire che la scuola corrisponde a quegli organi che nell’organismo umano hanno la funzione di creare il sangue”.

Ecco: i frutti marci dell’autonomia scolastica hanno portato proprio a questo; la vendita all’incanto – nell’Eden del consumo – di un bene – strumento dell’interesse generale - ridotto a vera e propria merce: l’istruzione. Quella che dovrebbe emancipare, includere, rendere cittadini consapevoli e non consumatori acritici, come il tetro scenario sembrerebbe invece suggerire.

La scelta di svolgere in uno dei centri commerciali più mastodontici di Roma il cosiddetto “open day” – testimonianza, a partire dalla dizione esterofila, di imbarazzante subalternità culturale – è essa stessa funzionale al mercato e metamercantile: il centro commerciale in questione è il massimo polo aggregativo – ahimé – della gioventù locale, delle famiglie in compulsiva ansia da shopping e garantisce un’affluenza quotidiana di centinaia e centinaia di persone.

Scegliere la scuola, ovvero orientarsi su un’opzione di identità culturale e di progetto esistenziale, lo si fa nello stesso luogo dove vengono spasmodicamente cercate le scarpe all’ultima moda, a contatto con l’ipermercato e il suo banco delle offerte, tra i suoni martellanti delle jeanserie e il rumore di sottofondo di una folla famelica di consumo.

Dai licei classici agli istituti professionali in una falsa democrazia di opportunità e prospettive ammantata dalla luce patinata delle vetrine. Ha senso tutto questo?

Va detto per chiarezza che l’iniziativa si colloca in ideale ottemperanza e piena coerenza con il progetto della (sedicente) Buona Scuola e con la sua idea di autonomia scolastica, tanto lodata dal nume tutelare della stessa, il non rimpianto ministro dell’Istruzione Luigi Berlinguer, cui dobbiamo senza dubbio la prima enorme picconata alla scuola della Repubblica. Siamo infatti di fronte all'offerta del prodotto al miglior offerente nel clima scintillante del tempio del consumo.

Questo modo di procedere richiama molti altri tristi esempi: le scuole sponsorizzate dal grande supermercato, o il tempo prolungato finanziato in una scuola media bolognese (scuola dell’obbligo!) dall’Unione Industriale locale, con un progetto mai sottoposto agli organi collegiali preposti all’approvazione.

Molti anni fa, nel 2004, quando scrivevo sul quotidiano fondato da Antonio Gramsci e affondato definitivamente dal Pd, il fenomeno era già pienamente evidente, ma suscitava ancora una qualche forma di indignazione.

Oggi l’asservimento ad una virata neoliberista che sbrana la scuola della Repubblica, insieme al sapere disinteressato ed emancipante e ai diritti garantiti per tutti, è purtroppo parte del DNA culturale e professionale anche di bravi docenti, che volontariamente, e spesso lietamente, partecipano alle festose kermesse senza porsi problemi di sorta.

L’idea è: una ricca opportunità per la “mia” scuola, guai a farsela scappare. In nome del profitto – in questo caso di quel particolare profitto che si misura in numero di iscrizioni a bilancio – vengono seppelliti principi e partono accuse di disfattismo, quando non di ostruzionismo, per chi non plauda all’allegra celebrazione. Anzi, se ne indigni.

Uno dei pochi intellettuali che in questi anni abbiano saputo pronunciare parole di dissenso inequivocabili nei confronti della distruzione della scuola della Repubblica messa in atto dagli ultimi governi, Luciano Canfora, in uno dei tanti suoi lucidissimi interventi, afferma che, in assenza di democrazia pluripartitica e di coscienza di classe, ai cui esiti estremi stiamo assistendo: “La sola battaglia possibile in questa situazione è di carattere culturale, il più possibile di massa. Descrivere scientificamente il “capitale” del XXI secolo e smascherare la cosiddetta “democrazia occidentale”; diffondere la consapevolezza della sua vera natura. I luoghi di intervento non sono molti. La grande stampa funziona sulla base di una costante censura del pensiero critico nei confronti dell’Occidente. Ma c’è un grande terreno di lotta culturale, che è la scuola. E’ lì che si può indirizzare una lotta tenace in favore del pensiero critico”.

Si tratta di un’intuizione suggestiva e straordinaria, dalla quale ripartire per rifondare convintamente. Non senza la consapevolezza, però, che il danno compiuto da anni di neoliberismo selvaggio e dall’incuria più o meno consapevole per i principi per cui tanti hanno rinunciato alla vita e pochi scritto quell’esemplare di ipotesi di società che è la Carta, hanno violentemente intaccato la schiera di quanti in quei principi riconosco ancora l’A e la Z della propria identità professionale, civica e politica.

La scuola democratica, infatti, è oggi – dopo il climax dello sciopero del 5 maggio – rappresentata da un’avanguardia meno numerosa, ma forse più agguerrita. Perché contestare tutti insieme una legge che non si vuole è molto più facile che ostacolare in pochi il pervasivo e incontenibile arretramento della vigilanza nei confronti del terrificante “nuovo che avanza”.

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