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La stagione delle "giunte rosse" di Giulio Carlo Argan, Luigi Petroselli, Ugo Vetere In evidenza

Domenica, 10 Aprile 2016 17:12

Si è svolto a Roma il 2 aprile 2016 un convegno "Che cosa sono 10 anni in una città eterna come Roma" che ripercorre la stagione delle "giunte rosse" di Giulio Carlo Argan, Luigi Petroselli, Ugo Vetere. Pubblichiamo qui le tre relazioni con i video degli interventi.

Paolo Ciofi

Dalle giunte rosse al crollo del “modello Roma”
Cosa si deve sapere prima di andare al voto

Una crisi che viene da lontano
Il declino di Roma, deturpata e offesa dalla corruzione dilagante e dall’indecoroso spettacolo di partiti ridotti perlopiù a comitati d’affari e a larve catodiche, di cui la vicenda denominata Mafia capitale è l’espressione più cruda e vergognosa, non è un destino ineluttabile e senza vie d’uscita. A patto però che del declino si svelino le ragioni più profonde, muovendo da un’analisi critica della realtà sistematicamente mascherata dalla destra e dal partito di Renzi, nonché dalla narrazione dei media mainstream che a loro tiene bordone, permeata com’è dalla cultura del business.
Il problema, ancora una volta, sembra essere quello di cosa si fa per spolpare delle sue risorse questa città allo scopo di impinguare se stessi, il proprio clan, la propria classe di riferimento. O per occupare la poltrona di sindaco. Non quello di cosa si fa per cambiare il destino di Roma, scoperchiando le sue contraddizioni laceranti e mettendo a valore le sue straordinarie risorse a beneficio dei romani e del Paese.
«Questa è una città che sta esplodendo tra nuove povertà e disagi, che non sono legati alle tragedie migratorie ma a chi è nato e cresciuto in questa città. Altro che terza settimana, qui non inizia nemmeno il mese» (Il Messaggero, 13.3.2016). Non sono parole di un gufo, che vuole male al capo del governo e al suo candidato a sindaco. E però neanche di chi, come un pappagallo, balbetta la lezioncina mandata a memoria. A parlare è il prefetto Franco Gabrielli al congresso provinciale delle Acli il 12 marzo 2016.
La sua è una denuncia onesta della realtà contraddittoria e drammatica di una metropoli come Roma, di gran lunga la più popolosa e vasta in Italia e tra le prime in Europa, giacché nel suo territorio comunale troverebbero posto tutte insieme Milano, Napoli, Torino, Palermo, Genova, Bologna, Firenze, Bari e Cagliari. Una realtà nella quale i fenomeni degenerativi cui assistiamo, accompagnati dall’inefficienza dei servizi più elementari e degli apparati centrali dello Stato, sono il punto di arrivo di una doppia crisi che viene da lontano.
Non solo della crisi di Roma come metropoli dell’Occidente avanzato, che è, insieme, luogo privilegiato dell’innovazione scientifica e tecnologica e al tempo stesso espressione delle più efferate disuguaglianze della globalizzazione capitalistica, segnata dal dominio della rendita finanziaria e immobiliare: un’agglomerazione sociale che svalorizza il lavoro e distrugge l’ambiente, attizza conflitti di classe e di genere contro i lavoratori e contro le donne, alimenta guerre tra poveri segnate da fondamentalismi religiosi e da esclusioni etniche.
Roma è in crisi anche come capitale dello Stato nazionale burocratico e accentratore. Un intero ciclo storico, aperto con l’unità d’Italia, ormai si sta concludendo. Ed emerge imperiosa la necessità di una svolta, in direzione di nuove forme di democrazia partecipata nel territorio metropolitano e, per altro verso, della vocazione universalistica di questa straordinaria città, che è anche centro della cristianità e depositaria di un patrimonio artistico e culturale senza uguali. Una vocazione da recuperare e da rifondare modernamente su una visione europea e mediterranea di pace e di collaborazione tra i popoli, che tuttavia la trascenda per guardare al mondo intero. C’è bisogno però di un preciso punto di vista da cui muovere per riconoscere e rovesciare le tendenze in atto, e costruire il futuro di una metropoli a misura umana e della capitale di un Paese in cui si affermino pienamente i principi di libertà e di uguaglianza sanciti dalla Costituzione. La Costituzione antifascista, che fonda la Repubblica sul lavoro e non sul capitale, ossia sulle persone che lavorano e non sui proprietari percettori di rendite e profitti, è precisamente il punto di vista da cui muovere. Giacché senza valorizzazione del lavoro non c’è centralità della persona, della sua dignità, dei suoi diritti, della sua libertà.
D’altra parte, se la valorizzazione del lavoro - attraverso salari dignitosi e l’incremento dell’occupazione - è il principale fattore di contrasto alla disgregazione della metropoli e al degrado delle periferie, la presenza di un autonomo e libero punto di vista delle lavoratrici e dei lavoratori politicamente organizzati è indispensabile per contrastare il disegno urbano costruito sugli interessi di rendita e profitto, e per far prevalere l’interesse pubblico e il bene comune.
«Di fronte alla crisi del Paese e alla crisi delle grandi aree metropolitane, la città è una sola. Solo se i mali di Roma saranno affrontati, solo se la parte più oppressa della società, dai poveri e dagli emarginati agli anziani, dalle borgate ai ghetti della periferia avranno un peso nuovo su tutta la città, essa potrà essere rinnovata e risanata. Solo se sarà più giusta e più umana, potrà essere ordinata, potrà essere una città capace di custodire il suo passato e di preparare un futuro». Non sono parole di un candidato o di una candidata a sindaco in questo torbido 2016. Queste parole di verità, peraltro molto attuali, sono state pronunciate da Luigi Petroselli il 27 settembre 1979 nel discorso d’insediamento al Campidoglio, succedendo a Giulio Carlo Argan.

La svolta delle giunte rosse
Per cambiare Roma c’è una storia di cui riappropriarsi, da studiare e rielaborare con lo sguardo rivolto alle contraddizioni esplosive del presente: quella delle «giunte rosse» in Campidoglio, e anche alla Provincia e alla Regione Lazio, che hanno governato nel decennio successivo alla vittoria del Pci nelle elezioni regionali del 1975 e allo strepitoso successo ottenuto nelle politiche e comunali del 1976. Grandi avanzate dopo lo spostamento a destra dei primi anni Settanta, realizzate anche in conseguenza delle «correzioni» di Enrico Berlinguer per un prioritario impegno del Pci nel sociale, dove avanzavano l’impoverimento e la disgregazione denunciati nel 1974 dal convegno del Vicariato sui mali di Roma. La storia delle «giunte rosse» dimostra come il declino della capitale non sia un destino segnato e senza scampo; e come a Roma il malgoverno, il malcostume e la corruzione si possano sconfiggere aprendo un orizzonte di buon governo, di giustizia sociale, di solidarietà. Oltre che di trasparenza e di efficienza - sì, anche di efficienza - nell’amministrazione del Comune.
E’ stata una fase assai ricca e complessa nella vita di Roma, del Lazio e dell’intera nazione, nella quale il Pci è esondato ben al di là del tradizionale argine delle «regioni rosse» per affacciarsi al governo del Paese, oggi del tutto rimossa come se si trattasse di un inciampo da seppellire tra i detriti della storia. Resta il fatto che, dopo i successi elettorali ottenuti seguendo l’impostazione politica di Berlinguer e moltiplicando i legami con la società profonda, quando in Italia venne all’ordine del giorno la questione del governo e di una diversa qualità dello sviluppo, la controffensiva avversa al Pci diventò assai pesante in tutti campi: politico, sociale, culturale-mediatico. Senza rinunciare al terrorismo e alla «strategia della tensione», che misero a dura prova la democrazia. A Roma, segnata dalle manifestazioni violente e dagli «espropri proletari», dai sequestri, dagli attentati e dagli omicidi, una sequenza culminata con il rapimento e l’esecuzione di Aldo Moro da parte delle Brigate rosse il 9 maggio 1978, si è fatto di tutto per accendere la miccia della crisi del Pci, tentando di contrapporre gli iscritti ai dirigenti e soprattutto di sradicare il partito dalla sua base sociale di massa, mettendo a rischio con ciò la stessa democrazia repubblicana. Un tentativo sostanzialmente fallito perché il Pci ha reagito e lottato, cercando di mantenere vivo il rapporto con la società, in particolare con gli sfruttati e gli oppressi delle borgate, ma anche con gli intellettuali e i ceti intermedi. Non chiudendosi nelle istituzioni, ma facendo delle istituzioni, in particolare del Comune di Roma, il centro della partecipazione democratica e della sovranità del popolo romano. Su questo terreno l’impegno di Gigi Petroselli sindaco è stato totale, coraggioso e senza risparmio. Da un lato, l’ascolto dell’anima popolare di Roma, il rapporto intenso con gli operai e non solo, con i quali si fermava a discutere e a mangiare un panino; dall’altro, il disegno di una città diversa e di una diversa capitale, alla quale restituire dignità e prestigio internazionale, coinvolgendo le forze migliori dell’intellettualità. Da una parte, la concretezza della vita quotidiana, che ha bisogno di risposte immediate; dall’altra, una strategia di cambiamento della metropoli, che ha forza e si può realizzare solo se poggia su un blocco sociale di riferimento. Su quest’intreccio di concretezza e progettualità, e con il sostegno di un grande partito di massa quale era allora il Pci, si sono misurate e hanno operato le «giunte rosse» a Roma e nel Lazio, di cui Petroselli è stato l’esponente di punta.
Già Argan aveva posto le premesse per un radicale cambiamento dell’assetto urbano, secondo l’idea che «se non si bonifica la periferia, il centro storico morirà soffocato; se non si collegherà organicamente e funzionalmente il centro storico alla periferia, Roma diventerà veramente una megalopoli mediorientale attorno ad un ritrovo di turisti». Nella Conferenza urbanistica del luglio 1977 si gettano così le basi per il risanamento delle borgate, la salvaguardia del patrimonio archeologico e monumentale, la riqualificazione del patrimonio edilizio.
Un disegno che da Petroselli viene arricchito, precisato e in gran parte realizzato in soli due anni. Prende corpo il progetto del grande parco che dal Colosseo abbraccia il territorio dell’Appia antica, secondo un’intuizione della migliore cultura urbanistica che era già stata dei francesi al tempo dell’occupazione dello Stato pontificio nel 1798; viene portata a conclusione la variante del piano regolatore generale per il risanamento delle borgate; si definiscono i piani particolareggiati per gli insediamenti produttivi; si dà attuazione al piano per l’edilizia economica e popolare, a cui concorre il capitale privato sotto controllo pubblico; si approva il Sistema direzionale orientale (Sdo), la vera chiave di volta del nuovo assetto metropolitano di Roma capitale.
Nel 1980 viene inaugurata la linea A della metropolitana, mentre assai intensa è l’attività della giunta comunale e del sindaco per assicurare l’esercizio dei diritti sociali e civili ed elevare la qualità della vita, il livello culturale e la partecipazione civica dotando la città di scuole, spazi verdi e impianti sportivi, di centri per gli anziani e per l’infanzia, di attività economiche e di servizio volte a favorire soprattutto l’occupazione giovanile e delle donne. In tale contesto l’estate romana, invenzione cult di Renato Nicolini, è stata non solo un fattore rilevante di diffusione della cultura e di coesione tra centro e periferie, ma anche uno strumento di presenza e di partecipazione contro la paura e il ripiegamento egoistico, indotti dalla violenza e dal terrorismo.
Questi indirizzi sono stati poi portati avanti dalla giunta guidata da Ugo Vetere, sebbene il contesto politico, generale e locale, si presentasse meno favorevole. D’altra parte - è bene ricordarlo non per un’operazione di archeologia sociale, ma perché oggi la direzione di marcia muove in senso opposto - anche la giunta di sinistra alla Regione dava corso a una serie di misure indirizzate a tutelare i diritti e gli interessi dei lavoratori e dei cittadini, e a salvaguardare il territorio. Ricordo, in particolare, la costruzione di una rete di trasporti pubblici nel Lazio e l’istituzione della sanità pubblica, fino ad allora inesistente nella capitale di uno Stato sovrano, dove dominavano il Vicariato attraverso monsignor Angelini e le cliniche private. Rilevante, inoltre, fu la scelta del bilancio partecipato, con la consultazione preventiva degli Enti locali, e del metodo della programmazione, finalizzato al riequilibrio sociale e territoriale della regione.

Giù le mani da Petroselli
È stata una stagione segnata da una molteplicità talora febbrile di iniziative e di interventi, tutti però ben caratterizzati da una scelta di campo. Quelle giunte non erano espressione del potere del capitale, della rendita e della speculazione. Al contrario, erano schierate dalla parte del lavoro, vale a dire di coloro che per vivere dispongono solo delle proprie abilità intellettuali e fisiche, e che quindi devono vedere rimossi gli ostacoli di ordine economico, sociale e culturale per poter esercitare i diritti di uguaglianza e libertà fissati in Costituzione.
Si espressero allora anche le virtù - di solito nascoste e represse - del popolo romano, capace di grandi slanci solidali come fu evidente in occasione del terremoto dell’Irpinia. Roma, capitale di solidarietà tra gli esseri umani e di pace tra i popoli, riacquistò dignità e prestigio tra le grandi città del mondo. Aveva ragione Petroselli, quando sosteneva che solo se la parte oppressa avrà «un peso nuovo su tutta la città», questa potrà essere risanata e rinnovata.
«Io come Petroselli», abbiamo letto sul Corriere della sera dell’8 marzo 2016. Parole di Roberto Giachetti, renziano convinto - secondo quel che dice e quel che fa - e candidato del Pd a sindaco di Roma. Pronunciate in occasione della visita alla tomba di un comunista più che convinto qual era allora Gigi Petroselli, morto come un operaio sul lavoro alla fine di un discorso davanti al Comitato centrale del Pci. Siamo a questo punto: il candidato renziano, dunque come Renzi guardiano e mentore dei poteri forti, per di più senza uno straccio di programma che guardi ai drammi del sociale e alla condizione umana nella metropoli, si appropria con pessimo gusto della salma di Petroselli, in vita schierato sulla frontiera opposta.
Ma mi faccia il piacere, avrebbe detto il principe De Curtis in arte Totò. Questo è uno scippo e lei, Giachetti, è un ossimoro vivente, o forse ancora peggio: è l’espressione perbenista e bene educata (fino a un certo punto) di un trasformismo senza principi. Prima rutelliano, poi renziano e insieme pannelliano, si fa fotografare sulla tomba di un comunista, persona specchiata e da tutti rispettata, con l’intenzione fin troppo scoperta di raccattare un po’ di voti: il vuoto programmatico coperto da uno scippo mediatico e da parole al vento. Non è rispetto per una tradizione politica e per la figura di un grande sindaco. È solo l’ennesima manifestazione, poco seria e molto grave, del degrado di una politica che dichiara tutto e il contrario di tutto. Disposta a tutto pur di agguantare il potere.
Proprio la pratica politica senza principi e senza programmi alternativi al dominio dei più forti, diametralmente opposta a quella del Pci nella fase delle «giunte rosse», ha prodotto la crescita abnorme dell’astensionismo e in pari tempo l’esplosione elettorale del Movimento 5 Stelle, che oggi si presenta come possibile vincitore a Roma. Non è un caso che dopo la parentesi poco felice di Ignazio Marino la candidata a sindaco del partito di Grillo e Casaleggio, Virginia Raggi, abbia dichiarato di avere votato Pd per quasi tutta la sua vita (!) e di essersene vergognata (corriere.it. 13 marzo 2016). Ma ciò non toglie che per la definizione del programma dei 5 Stelle abbiano votato solo 2.724 persone. E che il programma per la capitale nei suoi punti fondamentali è di una tale povertà di contenuti da lasciare sbalorditi: 1-mobilità e manutenzione delle strade; 2-trasparenza e stop agli sprechi; 3-emergenza rifiuti e cura del territorio (Blog di Beppe Grillo 17 marzo 2016).
Dunque, nessun progetto che guardi al futuro e nessuna strategia di cambiamento per una metropoli-capitale che rischia il collasso e un’involuzione storica. Dalla crisi della politica siamo approdati ai prerequisiti della normale amministrazione e all’annullamento della politica, che viene assorbita nella gestione amministrativa e rinuncia perciò a qualsiasi scenario di trasformazione dello stato delle cose presente. C’è qualcuno in qualunque partito e in qualsiasi città del mondo che vuole le strade sporche, intasate e dissestate? Che aspira ad avere un Comune opaco e sprecone? Che applaude se il territorio non è curato ed è invaso dei rifiuti? Siamo seri, il programma dei 5 Stelle per Roma è un banale catalogo di buone intenzioni, che tutti i passanti firmerebbero.
Ma se le cose stanno così, questa è un’ulteriore manifestazione della crisi verticale della classe dirigente, della funzione dirigente di chi ha detenuto e detiene il potere politico. Siamo persone normali con il pallino per l’onestà, precisa la Raggi. E l’onestà, occorre riconoscerlo, non è cosa da poco nel mondo in cui viviamo. Anch’essa è però un prerequisito, e un’attitudine della maggioranza degli elettori sequestrata dalla minoranza degli eletti. L’onestà è necessaria, ma non è sufficiente per governare una metropoli così complessa.
L’onestà era anche la nostra divisa quando governavamo Roma e la Regione. Ed essendo stato in quel tempo segretario regionale e romano del Pci, adesso, senza un filo di boria di partito ma constatando un’evidenza, posso dire di andare orgoglioso del fatto che nessuno dei miei compagni e compagne impegnati nelle «giunte rosse» abbia avuto a che fare con la giustizia. Ma per la verità devo anche aggiungere che se fossimo stati solo onesti, e non avessimo avuto qualche idea a proposito di Roma, oltre che un forte slancio ideale e politico, non avremmo resistito più di qualche mese nel governo della capitale del Paese, una delle città più significative e difficili d ’Europa e del mondo.

Una risorsa da valorizzare, non un pozzo da svuotare
Abbiamo preso le mosse dal rovesciamento di un luogo comune con il quale le vecchie classi dirigenti hanno sempre coperto le loro responsabilità storiche. Roma come risorsa da valorizzare a beneficio dei romani e di tutti gli italiani, non come patrimonio da sfruttare e città da assistere con qualche soccorso improvvisato, il più delle volte clientelare: questo è stato il punto di riferimento che ha guidato il Pci nel governo della capitale e della Regione, nel tentativo di superare il paradosso storico che ha conformato la città capitale.
La borghesia settentrionale, che secondo un’osservazione acuta di Togliatti solo qui avrebbe acquisito «la nozione esatta della sua funzione dirigente in modo che non avrebbe potuto se fosse rimasta chiusa nei fondachi di Milano e di Torino o nei campi lombardo-emiliani», ha trasferito a Roma la capitale dello Stato unitario in seguito al compromesso con gli agrari del Mezzogiorno. Ma lo Stato unitario per più di un secolo non ha mai discusso e definito il ruolo e le funzioni della sua capitale. Non lo ha fatto lo Stato liberale, neanche nei cinque anni in cui fu sindaco Ernesto Nathan. Non lo ha fatto lo Stato fascista, che con la vacua retorica della romanità ha sventrato il centro storico e riempito le periferie di baracche e di quartieri ghetto. Solo nel febbraio 1985, in seguito alla mozione presentata l’anno precedente dal gruppo del Pci e firmata da Enrico Berlinguer, la Camera dei deputati ha svolto un’ampia discussione cui hanno partecipato con loro mozioni anche gli altri gruppi politici e ha poi approvato pressoché all’unanimità un documento in cui viene delineato il ruolo di Roma come capitale d’Italia. Per la prima volta lo Stato unitario, per iniziativa del Pci, ha ritenuto di doversi fare carico della propria capitale. Erano tempi in cui il quotidiano della “grande borghesia illuminata” del Nord descriveva Roma come una capitale archeologica e ornamentale, che regge trionfalmente il confronto con il Cairo, Tunisi e Atene. Ma se davvero Roma era questa, la critica ai “padroni del vapore” fondatori e finanziatori del Corriere della sera, che da Roma hanno estratto un pozzo di rendite e profitti, non poteva essere più efficace.
Impartire lezioni a Roma dopo averla spolpata è un esercizio che ha radici antiche. Lo dice bene Argan in un’intervista del 1976: «Se la “classe dirigente”, dopo l’unità d’Italia, avesse saputo definire il nuovo ruolo di capitale che Roma era chiamata a svolgere e l’avesse messa in condizione di adempiere a quella funzione, Roma non sarebbe al punto in cui è: è a questo punto perché la “classe dirigente” ha preferito considerarla un patrimonio da sfruttare e l’ha esosamente, indegnamente sfruttata» (Giulio Carlo Argan, Un’idea di Roma, p.67). Il risultato è stato la crescita di una metropoli che rende difficile la vita alla maggioranza dei romani e di una capitale burocratica largamente inefficiente, i cui costi gravano sulla collettività nazionale, funzionale però a una politica assistenziale che a sua volta alimenta rendite e parassitismi insieme alla speculazione edilizia.
Spezzare questo circolo vizioso attraverso una strategia che delinei ruolo e funzioni della capitale della Repubblica democratica fondata sul lavoro era l’obiettivo della mozione presentata dal Pci. Nella consapevolezza che qualificare il ruolo della capitale ed elevare il livello dei suoi servizi non solo ha ricadute dirette sull’assetto urbano di Roma e sulla condizione sociale dei romani, ma assicura benefici a tutti gli italiani in termini di innalzamento della produttività del sistema, di miglioramento della qualità della vita, di rafforzamento dell’unità della nazione dando soluzione alla questione del Mezzogiorno.
A questa impostazione il Pci era pervenuto sulla base di una ricerca non occasionale. Per la verità già Aldo Moro, che nel 1958 presiedeva la Commissione speciale per Roma, aveva osservato che i provvedimenti fino ad allora varati erano solo «urgenti soccorsi, mancando una visione organica e complessiva». Ma decisiva è stata l’esperienza delle «giunte rosse», giacché da quell’esperienza emergeva con chiarezza che per il cambiamento di Roma non bastava l’intervento del Comune sul suo territorio. Era necessaria un’assunzione di responsabilità di governo e Parlamento per le funzioni che Roma esercita in quanto capitale. Un’esigenza che il Consiglio comunale, per iniziativa del sindaco Vetere, aveva messo in chiaro con un documento approvato nel febbraio del 1984, da cui il gruppo parlamentare comunista aveva preso spunto.

Berlinguer, la strategia del cambiamento
In sintesi, la mozione Berlinguer 1-00063 muoveva da due premesse. Come progettare e far vivere una capitale intesa come cervello politico-istituzionale del Paese che operi in connessione organica con lo sviluppo della cultura e della scienza, in una fase nella quale la rivoluzione elettronica annunciava cambiamenti radicali nel modo di produrre e di vivere, nei modelli sociali e culturali. Come realizzare nel territorio urbano in cui si concentrano le maggiori istituzioni dello Stato, e che si configura come metropoli europea cerniera tra Nord e Sud del mondo, una riforma della pubblica amministrazione improntata a criteri di trasparenza ed efficacia, moralizzazione e democratizzazione, in modo da aprire le porte a una penetrante partecipazione dei cittadini.
Da queste premesse discendevano le proposte, che si articolavano su alcuni assi principali, e che qui ricapitolo per sommi capi. In quanto a Roma capitale principale sede delle istituzioni politico-istituzionali e degli apparati dello Stato, due erano le scelte fondamentali: da una parte, l’allestimento nel centro storico di uno spazio razionale per le istituzioni elettive, contenuto nei costi e aperto allo scambio di relazioni con i cittadini, da realizzare salvaguardando rigorosamente l’ambiente monumentale nonché le attività produttive e di servizio; dall’altra, il trasferimento dei ministeri nel Sistema direzionale orientale (Sdo). Si trattava di scelte che avrebbero cambiato il volto di Roma, da accompagnare con l’informatizzazione dell’intero sistema della pubblica amministrazione e la qualificazione permanente degli addetti, anche istituendo un’alta scuola di studi.
In quanto a Roma capitale centro della cultura e della scienza, da promuovere attraverso la combinazione di innovazione scientifica e tecnologica diffusa e di valorizzazione del patrimonio artistico e culturale accumulato, oltre al potenziamento delle università pubbliche e dei centri di ricerca, si proponeva tra l’altro la costituzione di un rilevante polo dell’industria della comunicazione con capitali pubblici e privati, mediante la combinazione di cinematografia, televisione ed elettronica. Inoltre, in riferimento a Roma capitale come moderna metropoli europea cerniera tra Nord e Sud del mondo, si chiedeva l’impegno coordinato di tutte le competenze pubbliche, in particolare delle Partecipazioni statali, per la realizzazione e l’ammodernamento di infrastrutture di portata strategica, come le telecomunicazioni, la viabilità di sistema, i trasporti ferroviari e aeroportuali.
Secondo questa impostazione l’intervento dello Stato centrale con i relativi finanziamenti avrebbe dunque riguardato non l’insieme dei problemi (e dei mali) di Roma in quanto metropoli, ma solo le sue funzioni attinenti al ruolo di capitale. Ogni ipotesi di leggi speciali e di interventi a pioggia veniva respinta, in coerenza con una visione che considerava Roma non la capitale da sovrapporre allo Stato delle autonomie come braccio armato del potere centrale, ma la capofila delle autonomie con funzioni di capitale. Un aspetto decisivo, questo, anche per impostare correttamente e in modo trasparente la questione dei finanziamenti statali e del bilancio del Comune.
Berlinguer, che al momento della presentazione della mozione diede il suo contributo in modo approfondito e rigoroso come era sua abitudine, riteneva che solo una motivazione forte, tale da far assumere alla proposta comunista una dimensione effettivamente nazionale e perciò unificante, estranea a localismi e corporativismi, giustificasse la presentazione di una mozione sulla capitale da parte del Pci. Quindi, no a nuove autorità e a strumentazioni burocratiche extraistituzionali senza controlli, sì invece al coordinamento tra governo, Comune, Provincia e Regione, in modo che ciascuno potesse fare la sua parte dentro le coordinate strategiche adottate dal Parlamento, che avrebbe esercitato la sua funzione di controllo.
Un’impostazione nella sostanza accolta dal documento approvato dalla Camera. Con il quale, oltre a porre in maggiore evidenza la questione ambientale e ad apportare arricchimenti e precisazioni su singoli aspetti, si impegnava il governo a mettere in bilancio gli stanziamenti necessari per la realizzazione dei progetti e a riferire periodicamente al Parlamento sullo stato del loro avanzamento. Successivamente, il gruppo del Pci, riprendendo le linee guida della mozione Berlinguer, presentava nel luglio 1986 una proposta di legge intitolata Programma pluriennale di interventi connessi con le funzioni e il ruolo della capitale della Repubblica allo scopo di dare più forza e completezza a un orientamento che rappresentava un’evidente cesura rispetto al passato. E che, proprio per questo, incontrava forti resistenze nel governo presieduto da Bettino Craxi e nella Dc.
In particolare, la proposta di legge, che fondava la strategia di cambiamento della capitale sul nesso organico tra sviluppo della cultura e della scienza, tutela dell’ambiente e qualificazione delle forze produttive, dunque tra sapere e lavoro, mentre potenziava il ruolo del Parlamento dando vita alla Commissione bicamerale per Roma capitale, fissava in settemila miliardi in dieci anni l’ammontare degli stanziamenti ordinari dello Stato. Inoltre stabiliva che per la realizzazione dei progetti venissero resi disponibili, a titolo gratuito, gli edifici e le aree di proprietà demaniale. Per la realizzazione del terzo centro direzionale romano, lo Sdo, e per il trasferimento in esso dei ministeri, si prevedeva di mettere a disposizione l’area dell’aeroporto di Centocelle appartenente al demanio, e di dare vita a una Spa pubblico-privata.
Ma la proposta del Pci, come pure la mozione approvata a stragrande maggioranza dalla Camera dei deputati, è restata lettera morta, un’occasione gettata al vento. E così si è tornati ai vecchi amori, vale a dire ai rapporti incestuosi e clientelari tra la “classe dirigente” e la capitale del Paese. Craxi considerava Roma poco più di un salotto di rappresentanza a disposizione dell’ “Azienda Italia”, e dalla brume della Padania bacchettava i romani lavativi e spendaccioni. Tra i ministri, De Michelis preferiva trasferire la capitale altrove, forse a Venezia, mentre Goria, che occupava la poltrona del Tesoro, interrogato su cosa stesse facendo in applicazione della mozione approvata, rispose che non faceva un bel niente, altrimenti non avrebbe saputo cosa dire ai suoi elettori di Asti. D’altra parte, chiusa la fase delle «giunte rosse», il democristiano Nicola Signorello, sindaco “pennacchione” secondo la colorita espressione del suo compagno di partito Franco Evangelisti, sembrava preoccupato esclusivamente di mettere le mani sui pochi soldi disponibili per poterli distribuire a pioggia.

Le ragioni di una storia

Con la fine delle «giunte rosse» viene meno la possibilità di cambiare le città e di aprire un discorso nuovo per Roma capitale. È stata una fase ricca di sperimentazioni e di pratiche fondate sulla cultura della solidarietà per molti versi inedite nella vita della comunità metropolitana, di buon governo e di avanzamento civile e sociale che andrebbe indagata a fondo in tutti i suoi aspetti. Anche nei limiti e nelle difficoltà che ne hanno segnato l’esaurimento.
Qui mi limito a osservare che il nesso che lega storicamente e fattualmente il destino di Roma come metropoli alla sua funzione di capitale in un’unica conurbazione urbana, in cui il centro storico è lo specchio delle periferie e viceversa, il Pci lo ha colto pienamente con un certo ritardo, quando già le «giunte rosse», dopo il risanamento delle borgate, cominciavano ad andare in affanno ed avevano bisogno di un forte rilancio programmatico e progettuale. In seguito alle elezioni del 1975-76 il Pci governava in gran parte d’Italia, in molte regioni e città, ma non è riuscito a coordinare in modo efficace l’attività dei diversi governi locali sul tema cruciale della riforma dello Stato e del decentramento della pubblica amministrazione, di cui la questione della capitale è componente costitutiva anche per rafforzare l’identità della nazione.
La mozione Berlinguer su Roma capitale è del 1984. Siamo nel pieno dell’offensiva ideologica, sociale e politica del neoliberismo, che nel mondo con Thatcher e con Reagan ma anche in Europa e in Italia, annuncia la nuova era del dominio dell’individuo sulla società, del mercato sullo Stato, del capitale sul lavoro, del profitto e della rendita sugli esseri umani e sulla natura. Gli scarti programmatici e comportamentali si fanno sentire nelle coalizioni di sinistra che governano Regioni e Comuni. Nella giunta di Roma Renato Nicolini viene contestato dai socialisti per le sue iniziative. Alla Regione era stato arrestato l’assessore socialista al turismo in seguito allo scandalo degli “alberghi d’oro”. Sono i «meravigliosi anni ottanta» celebrati dall’avvocato Agnelli: è la stagione della “Milano da bere”, e anche della Roma da mangiare.
Contestualmente, le profonde trasformazioni che investono la società e l’economia cominciano a incrinare il blocco sociale del Pci, quindi il suo sistema di alleanze e il suo consenso. Tra il 1981 e il 1991 la popolazione di Roma diminuisce del 2 per cento, al blocco demografico del Comune fa riscontro la crescita dell’area metropolitana circostante. Crollano nello stesso tempo gli occupati in agricoltura del 51,8 per cento e quelli dell’industria del 17,4 mentre aumentano del 18,1 per cento gli addetti al terziario.
Sotto la spinta della terziarizzazione e della finanziarizzazione si diffondono piccole rendite e si concentra la ricchezza, cresce il Pil insieme alla disuguaglianza e alla povertà. Si dilata a dismisura il consumo del territorio ed esplode la questione ambientale. Si moltiplicano figure professionali diverse e ogni sorta di servizi, ma resta aperto il dramma della disoccupazione soprattutto per giovani e donne. Nuovi poteri si configurano e comincia l’assalto ai beni pubblici e comuni nel circuito che si innesca tra banchieri e finanzieri, tecnologie della rete, comunicazione e cultura, ben oltre la tradizionale rendita parassitaria e immobiliare.
Insomma, emergono nell’area metropolitana romana nuove laceranti contraddizioni, che avrebbero richiesto un’attenzione più penetrante verso i problemi sociali e le nuove condizioni di vita delle lavoratrici e dei lavoratori pubblici e privati, portando alla luce le sofferenze del lavoro manuale e dei giovani senza occupazione e senza prospettive. Ma anche riconoscendo, ai fini della lotta per un diverso assetto urbano e della costruzione di un blocco sociale in grado di reggere l’urto dei poteri dominanti, le enormi potenzialità del lavoro intellettuale e scientifico, della comunicazione e dell’informazione, indotte dalla rivoluzione elettronica.
Sono temi che Berlinguer affronta in un’intervista del 1983 intitolata Verso il Duemila (Enrico Berlinguer, Un’altra idea del mondo, pp. 293-306). Ma l’opera di rinnovamento che il segretario del Pci aveva intrapreso in tutti i campi è stata drammaticamente interrotta dalla morte improvvisa, e hanno prevalso altri orientamenti. Già in quegli anni avevano largo corso a sinistra “teorie” che magnificavano le virtù del mercato. Giuliano Amato, per esempio, sosteneva che l’assenza di obiettivi è di per sé un obiettivo giacché l’unica possibilità, di fronte alla disgregazione sociale crescente, è adeguarsi alle tendenze dominanti del momento. Di conseguenza, la costruzione di un «blocco sociale progressista» sarebbe una pura astrazione ideologica (Il lavoro senza rappresentanza, p. 44 e 298 nota 72). E della politica, si dovrebbe aggiungere, altro non rimarrebbe, se non una forma di galleggiamento opportunistico sulle onde tempestose dei mercati.

Metropoli autogovernata, capitale della democrazia partecipata
È evidente che in queste condizioni, se è vero che la libertà di mercato alloca razionalmente le risorse, sprigiona tutte le energie compresse nel corpo sociale e garantisce il libero gioco democratico, allora non ha alcun senso definire una strategia per la capitale dello Stato. Dall’unità d’Italia alla metà degli anni Ottanta la popolazione di Roma, seguendo le tendenze del mercato, è cresciuta di circa 15 volte, quella italiana è poco più che raddoppiata. Che l’enorme crescita demografica della città strabordata in metropoli sia il prodotto della sua funzione di capitale è un dato di fatto che nessuno può negare. Ma questo enorme dato di fatto è stato semplicemente ignorato dalla “classe dirigente”. E lo è ancora oggi, nonostante sia stato beffardamente introdotto in Costituzione un articolo che definisce Roma «capitale della Repubblica».
D’altro canto, il dominio della cultura d’impresa e la denigrazione sistematica del pubblico hanno portato a un duplice effetto. Su un versante, le privatizzazioni e l’appalto ai privati dei servizi pubblici; sull’altro, il degrado, l’inefficienza dell’amministrazione pubblica e la perdita di dignità dei dipendenti. Così le spese sono raddoppiate e i servizi sono peggiorati. E il cittadino paga tre volte. Per il cattivo servizio, per il mantenimento di un apparato pubblico degradato e permeabile alla corruzione, per i profitti da assicurare ai concessionari privati. Si assiste a una situazione paradossale: la spesa aumenta e i servizi pubblici si riducono, le tasse locali crescono e le prestazioni peggiorano.
Nella somma confusa di disposizioni e di intenzioni relative all’area metropolitana, la legge 42/2009 stabilisce che «Roma Capitale è un ente territoriale, i cui attuali confini sono quelli del Comune di Roma, e dispone di speciale autonomia, statutaria, amministrativa e finanziaria, nei limiti stabiliti dalla Costituzione. L'ordinamento di Roma Capitale è diretto a garantire il miglior assetto delle funzioni (!) che Roma è chiamata a svolgere quale sede degli organi costituzionali nonché delle rappresentanze diplomatiche degli Stati esteri, ivi (?) presenti presso la Repubblica Italiana, presso lo Stato della Città del Vaticano (!) e presso le istituzioni internazionali».
A parte l’italiano zoppicante e la norma secondo cui Roma capitale dovrebbe garantire il migliore assetto per le rappresentanze diplomatiche degli Stati esteri anche presso un altro Stato estero qual è il Vaticano, abbiamo a che fare con disposizioni burocratiche di banale amministrazione, del tutto neutre rispetto al presente e al futuro della capitale. Roma Capitale o Rome & you, insipido logo commerciale del sito ufficiale capitolino? Certo è che dietro Roma Capitale con la C maiuscola c’è il nulla, un vuoto spinto di progettualità e di prospettive. Solo uno slogan senza contenuto, che Gianni Alemanno ha innalzato per esaltare una bolsa retorica della romanità e coprire le peggiori nefandezze.
Non c’è dubbio che la gestione del parafascista Alemanno, al vertice del clientelismo e del malaffare, sia stata la peggiore della storia repubblicana, ben diversa dalle giunte Rutelli e Veltroni che hanno governato nel passaggio tra il Novecento e il Duemila. Ma occorre precisare che il tanto decantato “modello Roma” non è stato altro che un’espressione prolungata, sia pure a tratti originale, del galleggiamento dei governi locali sulle tendenze spontanee del mercato. Tutta interna e subalterna a un neoliberismo “di sinistra”, nella convinzione che il pieno dispiegamento della libertà d’impresa, accompagnato da un pizzico di verdismo buonista e da un po’ di compassione verso “i meno fortunati”, avrebbe consentito a Roma di crescere governandola con il sostegno del partito “leggero” della nuova borghesia rampante.
Un indirizzo che rompeva con l’impianto delle giunte di sinistra sui quattro punti cardinali: la centralità della questione sociale e del lavoro; il contenimento e il controllo della rendita immobiliare; la visione unitaria della metropoli, ossia il superamento della frattura tra centro e periferia mediante il cambiamento dell’intero assetto urbano; la delineazione di una strategia complessiva, volta a contrastare la crisi della metropoli e a ridefinire il ruolo della capitale.
Il “modello Roma”, al contrario degli interventi strutturali, puntava sulla filosofia dei “grandi eventi”, sull’evento straordinario: sempre mediatico, di volta in volta sportivo, culturale e religioso. Ma i “grandi eventi”, al di là degli introiti di chi organizza il business, raramente hanno prodotto benefici per la città e i cittadini, soprattutto non hanno cambiato il volto di Roma e la dinamica del suo declino. Al contrario, come è noto, la dinamica del declino è stata accelerata e il volto di Roma è stato sfregiato.
Rutelli si ricorda soprattutto per il buon successo ottenuto nell’ organizzazione del Giubileo del Duemila promosso da papa Wojtyla, il quale peraltro non aveva mancato di bacchettarlo per il «dramma» di una città in cui «emerge, prepotentemente, il problema della disoccupazione e del lavoro» (l’Unità, 26.1.96). Resta il fatto che subito dopo il Giubileo, con Veltroni sindaco e Morassut assessore all’urbanistica, viene approvato «il peggior piano regolatore della storia di Roma», come scrisse Nicolini (Controlacrisi, 5.8.2012).
Era il trionfo della rendita immobiliare e finanziaria, che mai aveva avuto tanto potere, neanche ai tempi dei sindaci democristiani del dopoguerra. Curiosamente, forse per un ghiribizzo della storia, il giudizio definitivo sugli effetti del “modello Roma” lo ha dato proprio Rutelli in un momento di lucidità nel 2008, quando si ricandidò senza fortuna per succedere a Veltroni in un nuovo passaggio di mano tra i due vessiliferi del “modello”: «una città devastata e ridotta allo stremo» (P. C. Senza alibi la sconfitta del “modello Roma”, Dalla parte del lavoro, 12.5.2008).
Il resto è cronaca dei nostri giorni, e di quel giudizio è ancora peggiore. Nello stato in cui oggi hanno ridotto Roma, recuperare l’ispirazione profonda e il modo di governare che ha guidato le «giunte Rosse» è una condizione necessaria per rovesciare le tendenze distruttive in atto e arrestare il declino, aprire un orizzonte nuovo e gettare lo sguardo verso il futuro. Ma il rinascimento di Roma può affermarsi solo se, muovendo dalle più efficaci esperienze di governo e dalle migliori tradizioni del movimento operaio e popolare, matura tra i romani di oggi, uomini e donne, di tutti i colori e di tutte le culture e le fedi, un senso forte di ribellione che si traduca nella costruzione di una inedita entità sociale, in grado di adottare e praticare una nuova concezione della politica come mezzo per trasformare la realtà. Serve un legame organico e permanente tra lotte locali, movimenti su singoli temi e ridisegno complessivo della metropoli, tra obiettivi da perseguire e blocco sociale da mettere in campo. Isolarsi nella propria particolarità, nel proprio interesse di gruppo, nella cura del proprio orto quando c’è da conquistare la prateria può salvare la coscienza di qualcuno ma non sposta i rapporti di forza. È una pratica e una mentalità cui porre fine al più presto. La stessa buona amministrazione, se non è sorretta da una visione della metropoli come comunità solidale, che contrasti con decisione le disuguaglianze e le ingiustizie, non basta. Senza la costruzione di un blocco sociale alternativo al dominio della rendita e della finanza, e senza una partecipazione democratica organizzata e duratura, che spezzi l’autoreferenzialità e la separatezza della politica, non è possibile cambiare la condizione di Roma. Una comunità urbana per tutte le età in sintonia con l’ambiente naturale, multietnica e solidale, centro di cultura aperto al mondo e all’innovazione; una metropoli universale autogovernata, capitale della democrazia partecipata: questo è il vero modello Roma per cui lottare.

Paolo Ciofi
Roma 2 aprile 2016
www.paolociofi.it

Vittorio Sartogo

Il diritto alla mobilità e la condizione dei lavoratori dei trasporti

A conclusione della 2a Conferenza cittadina sui problemi urbanistici, nel marzo 1981, all’on.le Mammì che si chiedeva se la ragione fosse sogno, il Sindaco Petroselli disse. “ Noi siamo per il sogno. Se il sogno è ragione noi siamo per il sogno. La nostra è appunto un’utopia della ragione. Se sogno vuol dire contribuire a difendere la democrazia repubblicana … nella quale prevalga la politica e non il politicismo, prevalga l’amministrazione e non l’affarismo, nella quale tra i partiti storici della società italiana si sviluppi e avanzi un confronto che non nega le origini ideali e politiche ma da queste muovendo concorra a far crescere la nostra democrazia, se questo è un sogno noi siamo per questo sogno. Io credo che non ci sia oggi altro realismo per chi guarda a Roma e al Paese che quello di coltivare questo sogno, di credere in questa utopia, che è già per la nostra azione in gran parte realtà.” E concludeva il suo discorso dicendo:” Vogliamo essere qualcosa di più; di diverso, da un comitato di gestione, anche di corretta gestione, un grande riferimento civile e morale per la città e per i giovani.”

In queste straordinarie poche righe Petroselli, superando la difficoltà insita nell’unire concetti abitualmente intesi come contrari: sogno ragione realtà utopia, li compone come i tratti salienti di quel che volevano essere le Giunte di sinistra non solo per la città ma nell’ambito della politica italiana. Interpreta dunque quella aspettativa, quella speranza popolare di cambiamento che già stava diventato un forte sentimento di partecipazione e di condivisione. Che si rivelerà nella durata della simpatia per i tre sindaci di sinistra e specialmente dell’affetto per lui e nel permanere del ricordo di un vivace momento creativo nella storia della città: una parentesi felice che si aprì nella vita difficile dei ceti popolari, ma non solo di essi Una parentesi appunto, che non sembrò riaprirsi e rivivere nelle successive giunte di centro sinistra, pur sostenute anche dalla sinistra comunista. Il pianificar facendo o il modello Roma furono anzi l’esatto contrario di quelle prime esperienze di direzione della società romana.

Ovviamente furono fortissime le opposizioni politiche, rappresentate soprattutto dalla Democrazia Cristiana, che alla fine impedirono il compimento, ed anche il proseguimento, delle iniziative intraprese; fortissime le obiezioni culturali per la differente impostazione proposta sulla scia della grande cultura di cui era portatore Giulio Carlo Argan, e con lui soprattutto Antonio Cederna, ovvero l’asse portante costituito dall’intervento sull’area archeologica centrale. Tanto che l’Unità ospitava le opinioni contrarie: per esempio, tra gli altri, l’autorevole latinista Luca Canali si dichiarava a favore del mantenimento dello stradone dei Fori Imperiali ammonendo a non cedere alla “demagogia cedernista”. Dal che si evince che le ambiguità, le esitazioni, l’avversità erano ben presenti anche all’interno del PCI e investivano l’ idea stessa di città che il nuovo punto di vista rappresentava. E’ facile intendere, lo hanno dimostrato anche le recenti reazioni alle proposte di pedonalizzazione di una parte di via dei Fori, come quel punto di vista intrecciasse indissolubilmente rilevanza dell’area archeologica, relazione unitaria centro periferia, modalità del traffico. Implicasse, cioè, un profondo cambiamento di abitudini consolidate.

Relativamente al tema del traffico, i programmi, sia della Federazione romana del PCI che delle Giunte, si incentravano su politiche di sostegno al trasporto pubblico, soprattutto nelle aree delle periferie e della dilatazione della città nell’area vasta dell’hinterland. Giustamente ci si preoccupava della difficoltà e penosità dell’ accesso alla città, al suo centro storico, ai luoghi di lavoro, ai servizi. Il tema del degrado delle periferie e delle condizioni (in)civili gravi in cui versavano gli abitanti con intollerabili diseguaglianze era forse quello più presente nell’azione delle Giunte. In un certo senso si può dire che esse, almeno nel pensiero di Petroselli che ne fu il vero artefice, governavano per conto delle periferie. In ciò stava la loro profonda diversità. Poi, com’è evidente, non dovunque esplose la genialità di Nicolini o pesò la fermezza di Petroselli nel voler costruire qualcosa da cui non fosse possibile tornare indietro. Specie sul traffico vi era la ripetizione di un insieme di interventi “classici”, per così dire: la riforma dell’Atac, l’aumento delle metropolitane (allora vi era solo la linea B), ma anche delle tangenziali, il potenziamento delle ferrovie suburbane, ecc. Questa anzi, delle ferrovie suburbane, regionali, era l’elemento più interessante, e destinato a ripresentarsi come questione nodale. Furono allora ricorrenti i richiami all’area romana metropolitana, e alla crisi delle metropoli di cui, peraltro, su un piano più generale si occupò la stessa Onu in un convegno svoltosi allora a Roma, che determinò una ripresa di interesse, senza tuttavia approdi consistenti. Anche la logica conseguenza della “regionalizzazione” del Partito non fece grandi passi. Si consolidò però la convinzione che un punto decisivo di miglioramento dovesse venire dalla costruzione di un sistema di trasporto integrato, metropolitane e ferrovie collegate in nodi di una rete, moderno e conforme alle esigenze di pendolari e utenti. Del resto, l’analisi delle grandi capitali europee segnalava sì un ramificato sistema di metropolitane urbane, ma soprattutto, anzi principalmente, una disponibilità di ferrovie suburbane senza paragoni con quelle italiane e romane. L’idea dell’integrazione del servizio pubblico di trasporto sarà una delle più resistenti ed efficaci: metterà capo molti anni dopo al sistema Trambus che tuttora è un buon punto d’opposizione alla privatizzazione dei trasporto pubblico. Tra gli avvenimenti più significativi, in ogni caso, va segnalata l’apertura della Metro A, nel tratto da Cinecittà ad Ottaviano lungo 14 km. Il beneficio della seconda linea metropolitana fu tuttavia temperato da un insieme di provvedimenti soppressivi di linee su ferro e gomma ritenute ormai inutili perché sostituite dalla metro. Non solo la tramvia Termini Cinecittà, ma una pluralità di linee, anche centrali, furono abolite limitando seriamente l’interdipendenza della pluralità dei flussi di utenti e pesando fortemente sulla capacità di carico della linea. Per fortuna ci si accorse dell’’errore e non entrò in vigore un secondo tempo di ulteriori soppressioni. Segnalo che anche oggi la linea C, in costruzione, non ha previsto la connessione al Pigneto con le ferrovie e a San Giovanni con la linea A, due nodi essenziali, ciò che vuol dire che si continua a procedere per singoli interventi, senza una visione d’insieme. Petroselli insisteva con i tecnici affinché non si limitassero a prospettare i problemi ma indicassero le soluzioni possibili con riguardo all’efficacia dei collegamenti delle periferie sud e dell’area dei Castelli con il centro e con il quartiere di Prati.

Fu affrontato anche il tema della navigabilità del Tevere nel contesto dell’azione di recupero dell’interdipendenza cruciale tra fiume e città, quindi innanzitutto del risanamento delle acque e del recupero delle sponde e delle golene degradate dall’abusivismo, dal rimessaggio di barche, dall’occupazione di sfascia carrozze, da aree sportive ecc. Ciò pose problemi complessi di pianificazione e di rapporto con l’insieme del bacino che si estende anche in Toscana e Umbria. Comunque restò pregevole uno studio “Progetto Tevere ‘82” pubblicato dal Comune. Fu l’assessore Rossi Doria a sconsigliare un progetto di navigabilità perché “sono stati realizzati ponti, traverse, sbarramenti ed altre opere infrastrutturali che hanno ampiamente compromesso tale ipotesi. La realizzabilità di un progetto di questo genere sarebbe legata a varianti del fiume come quella sostenuta da Giuseppe Garibaldi ed oggi definitivamente improponibile. L’impegno tecnico, economico e politico sarebbe di tale portata da lasciar supporre tempi lunghi e consistenti dubbi sull’opportunità di procedere e proseguire su iniziative di questo genere”.

Ma l’azione più rilevante fu, com’è noto, quella sull’area archeologica centrale: l’idea di un parco che collegasse i Fori all’Appia antica che fu approvata alla fine del 1982, e che presupponeva lo smantellamento di via dei Fori imperiali, e di cui, fin dal 1980 furono attuati i primi provvedimenti significativi, ovvero lo smantellamento di via del Foro Romano che divideva il Campidoglio dal Foro Romano e la creazione di un’area pedonale intorno all’Arco di Costantino. Fu una prima ricomposizione dell’unità storica e urbanistica tra Colosseo e Campidoglio e l’avvio concreto di quella protezione dei monumenti dall’inquinamento che era divenuta una seria preoccupazione.

“O i monumenti o le automobili” fu il severo monito del Sindaco Giulio Carlo Argan di fronte alla corrosione dei marmi e dei metalli denunciata dal soprintendente La Regina e testimoniata da un’apposita commissione presieduta da Cesare Gnudi, importante storico dell’arte. Ci si rende subito conto dello shock, del vero e proprio trauma, di una simile conclusione in una società dominata dall’automobile. Le “insolent chariots”, le invadenti carrette come le definì John Keats hanno plasmato addirittura un nuovo tipo umano, indotto una mutazione antropologica, così da non potersi staccare da esse, o da divenire il miraggio di popolazioni emergenti e qui da noi simbolo di una mitica ripresa Così, per restare tenacemente attaccati ad esse, al piombo tetraetile riconosciuto agente di insostenibile avvelenamento, si sostituì quello più subdolo delle polveri sottili con un carburante definito, con impostura volontaria, verde. Più recentemente si pensa alle auto elettriche, pur di non contrastare il loro dominio sulle strade e la loro capacità di plasmare a propria immagine la città e la vita.

E’ stato proprio il problema della possibile viabilità alternativa alla chiusura dell’area archeologica alle automobili a non essere stato risolto, contribuendo a condurre il progetto su di un binario morto. Leonardo Benevolo lo riconobbe e scrisse: “Si è cercato di provare a far circolare le macchine altrove per riconnettere il sud della città con il centro. Ed è questo un punto cruciale. Questa soluzione non si può trovare perché non c’è.” Aggiungendo “… nella parte antica delle città le macchine sono incompatibili. E vanno vietate, restituendo il centro alla sola circolazione pedonale … guardiamo a cosa succede a Manhattan, che non è una città antica:l’80 per cento dei suoi quattro milioni di abitanti non possiede una macchina e il 20 per cento che la possiede parcheggia fuori, soprattutto nel New Jersey”(La fine della città, Laterza2011) Benevolo mise a punto un progetto di pedonalizzazione in tal senso e anni dopo Italo Insolera elaborò un piano di rinascita del tram, correggendo l’impostazione di Benevolo che considerava a base del trasporto pubblico una rete di metropolitane. Troppo costose e con tempi lunghissimi di costruzione, al netto ovviamente della corruzione.

Torniamo alle Giunte rosse e ascoltate questo straordinario passo di Petroselli: “vedo il discorso sui Fori anche come una metafora … su due modi, diversi di governare la città e di immaginarla nei prossimi vent'anni ... dico che si deve avere il coraggio e la serietà di capovolgere l'angolo visuale in cui guardiamo il traffico,il suo uso, le sue caratteristiche,la mobilità delle persone. Oggi si dice ancora:dato che abbiamo tante macchine, dato che abbiamo queste strutture viarie,vediamo un po' cosa si può fare per campare. E invece va detto: dato che cosi non si campa più, veda un po'la tecnologia, veda la tecnica del trasporto che cosa si può fare, studi, si adatti,si subordini. Questo, la gente ha diritto di pretendere:questo ci chiede.- E’ anche vero che molti non la vedono così. Ora abbiamo anche schiere di accademici in estasi per gli incanti della motorizzazione. C’è qualcosa che deve cambiare anche nella mentalità di molti.” (L’Unità, 5 aprile 1981).

Con particolare lucidità Petroselli indica che una differente idea di città si realizza attraverso un differente modo di concepire la mobilità. Tutto il contrario della rassegnazione delle successive Giunte di centro sinistra al dominio delle automobili simboleggiata dalla politica dei parcheggi urbani. Addirittura nel Pincio o nei Muraglioni, o a via Giulia.Meglio, la sostanziale contiguità di queste più recenti politiche con l’accettazione della situazione qual è, limitandosi appunto a far qualcosa per campare. Disastri.

Era possibile allora parlare così perché le Giunte poggiavano su di una lunga lotta del movimento operaio e democratico della capitale, di una forza di progresso e liberazione, come si diceva allora e come ha sottolineato Paolo Ciofi che della Federazione Romana del PCI era il segretario, che rendevano concreta la possibilità di un governo di cambiamento, di interruzione del dominio della speculazione, di riforma della proprietà e dell’uso del suolo, del “latifondo fondiario” secondo la puntuale definizione di Aldo Natoli. Poi, come ho accennato, non sarebbero state tutte luci e si compiranno passi indietro, e, bisogna pur dirlo, si registrò una sconfitta. Ma in quel momento le Giunte si presentavano ed erano avvertite come governo delle periferie, impegno contro le diseguaglianze per la vivibilità della città da parte di tutti gli abitanti. Può sembrare retorica, e magari lo è: non c’è dubbio però che preoccupazione dominante era quella di agire in tal senso con aperture alla parte più sensibile e culturalmente avvertita della città. Con la modestia ma con la forza di rappresentare la città reale.

Le aspettative erano tante a fronte delle enormi difficoltà economiche e politiche date dalla crisi in sui viveva il Paese, dai processi di finanziarizzazione ormai avviati, dalle inquietudini sociali, dall’offensiva degli strateghi della tensione. In quel contesto essenziale era il legame stretto tra amministrazione e popolo romano, la presenza attiva delle masse. Cosa non facile con un popolo un po’ anarcoide, comunque disincantato seppure artefice di magnifiche lotte. E per nulla facile fu per il PCI creare un rapporto positivo tra lavoro delle Giunte e iniziativa del Partito e dello stesso Sindacato. Sotto molti aspetti era presente una logica che potremmo definire del non disturbare il manovratore e comunque un ritardo serio nella comprensione dei nuovi compiti, così ne soffriva sia la limpidezza della proposta politica che la capacità del lavoro sul territorio si direbbe oggi, ovvero con le forze sociali. Quella molto spesso percepita come riduttiva mediazione politica tra le forze delle istituzioni, questo non in grado di cogliere gli spunti per consolidare ed estendere i passi avanti.

Emblematico è stato il terreno del traffico. Ho già detto come il Partito si muovesse sulla base di proposte “classiche”, senza riuscire a trarre dalle caratteristiche dell’espansione della città e del potere dei “padroni della città” un aggiornamento ormai inevitabile. Il tema dei trasporti non diventerà in quegli anni un progetto politico. Maturavano intanto incomprensioni tra le diverse categorie e generazioni di autoferrotranvieri. Per esempio, alla mia Sezione faceva capo il deposito Atac di via della Lega Lombarda e le cellule erano due: operai e personale viaggiante, cioè autisti (prima che si creasse la sezione autoferrotranvieri), ovvero sul piano politico permaneva una differenziazione sindacale e l’aver creato la sezione aziendale sancì questa impronta. Ma poi vi era la differenza tra giovani e anziani, con i giovani più insicuri non tanto sulla garanzia del posto di lavoro quanto del possibile degradare delle mansioni, e con esse del reddito. Era il tempo della riforma sanitaria, cioè della maturazione della consapevolezza nella classe operaia che bisognasse passare dal ricorso a medici “amici”, medici compagni al costituirsi in gruppo che individuasse nelle stesse modalità del lavoro, per cambiarle, la causa delle malattie professionali o da scoprire come professionali. Era il tempo difficile della linea dell’Eur, in sintesi delle compatibilità salariali.

L’importante lotta degli autisti di autobus, nell’ambito della vertenza del settore per il rinnovo del contratto nazionale, è interessante perché in essa vengono alla luce questi nodi. Si costituisce un Comitato di lotta critico verso i sindacati i quali deploreranno che le forme di lotta danneggino soprattutto la città. Gli utenti, gli altri lavoratori. E’vero, sebbene gli orari degli scioperi siano annunciati per tempo; tuttavia è pure vero che i sindacati poco curino i rapporti con gli utenti, per esempio organizzando gli autisti in modo che siano intermediari fondamentali per una gestione del servizio a misura dei viaggiatori, ascoltandone e discutendone le osservazioni e le proposte. L’accusa di scarsa democrazia sindacale viene assorbita come giusta ma velata dalla condanna della fuga in avanti salariale proposta dal Comitato di lotta. Eppure il Comitato chiede di partecipare alla trattativa, di poter decidere nel merito della vertenza approvando o correggendo le proposte o gli accordi e, soprattutto, lega gli aumenti salariali a modifiche nell’organizzazione del lavoro, in specie chiedendo che l’orario straordinario segua quello ordinario e non avvenga come richiamo in servizio. La situazione diventa pesante perché su di essa agiscono forze politiche e di governo, in specie la Democrazia Cristiana, che tergiversano, conducono per le lunghe la trattativa nazionale in modo da indebolire la Giunta comunale mediante il caos della mobilità urbana. In questo contesto l’intelligenza politica di Petroselli apre una via d’uscita presentandosi nei depositi Atac e ascoltando direttamente la voce dei lavoratori. Cruciale diventa la decisione di anticipare quella parte dell’aumento salariale che potrà discendere dalla modifica del sistema degli straordinari, non ostante non si sappia ancora a quanto ammonteranno i trasferimenti statali. Di quell’episodio si ricorda il coraggio della franca discussione diretta, dell’ascolto sincero e non la finzione dell’attuale “partecipazione”, in cui neppure si ascolta. Anzi!

Quanto lontano quel tempo da oggi. dalle attuali politiche del lavoro che tendono ad approfondire le diseguaglianze tra i lavoratori, mettendoli in competizione assegnando aumenti non a tutti ma a coloro che producono di più. Né parlamentari del PD arrossiscono nel sostenere (La Repubblica, 13 marzo 2016) il recentissimo decreto ministeriale sulla detassazione e incentivazione del lavoro affermando che i lavoratori devono entrare in armonia e non in antagonismo,in uno spirito di fiducia con i capi dell’azienda in cui lavorano. Siamo tornati al un tempo precedente addirittura a quello di Menenio Agrippa. Figuriamoci che modernità!

Vittorio Sartogo
Roma 2 aprile 2016

Paolo Berdini

I protagonisti delle amministrazioni di sinistra che conquistarono Roma e molte altre città italiane negli anni ’70 si erano formate nel periodo della storia del paese in cui fu costruito il welfare urbano che ha caratterizzato i decenni che vanno dall’immediato dopoguerra al 1980. I protagonisti e i partiti della sinistra che furono chiamati ad amministrare le maggiori città italiane erano pertanto orientati verso il raggiungimento di obiettivi che dovevano favorire il riscatto dei lavoratori e dei ceti popolari. Una cultura che si iscriveva perfettamente nel grande alveo tracciato dalla Costituzione repubblicana.

Ogni città tendeva dunque a dare concreta attuazione alle leggi che in quegli anni venivano approvate e che avevano portato all’istruzione di massa, alla sanità per ogni cittadino, ai servizi sociali e all’istruzione. Vengono avviati progetti per realizzare scuole e asili nido, aree verdi, impianti sportivi, centri anziani, presidi sanitari. Nelle città maggiormente evolute –penso alla Bologna di Renato Zangheri- negli anni ’70 venne addirittura sperimentata la gratuità del trasporto pubblico per alcune fasce orarie e alcune categorie di reddito. I comuni potevano indebitarsi virtuosamente e fornire con questo uso intelligente della spesa pubblica risposte alle classi più svantaggiate.

La Roma conquistata dalle sinistre nel 1976 partiva da una situazione strutturale molto più arretrata rispetto alle città del nord. Piuttosto che sperimentare nuove forme di gestione del trasporto pubblico si doveva provvedere a realizzarla quella rete di trasporti: lo sviluppo disordinato e fortemente connotato dall’abusivismo avevano costruito una periferia abbandonata a se stessa che attendeva ancora di avere trasporti pubblici. Si dovevano costruire acquedotti e fognature. Si dovevano demolire le tante baracche che davano un incivile ricovero a migliaia di famiglie romane.

Questa arretratezza fu la base del programma i governo della Roma di Argan e Petroselli. Risanare la periferia lontana, legittimando le borgate abusive e avviando un gigantesco programma di costruzione di servizi a rete e di scuole; cancellare la vergogna delle baracche e dei borghetti demolendole in modo sistematico e avviando la realizzazione di nuovi quartieri di abitazioni pubbliche; favorire l’insediamento di nuove attività produttive con la realizzazione di nuove zone; caratterizzare il centro storico come luogo della cultura (di quegli anni è a legge Biasini che assicurò a Roma indispensabili finanziamenti per realizzare lo straordinario sistema museale di cui ancora beneficiamo; infine allargamento del welfare urbano: vengono costruiti per la prima volta asili nido, centri anziani, ampliate le aree verdi e potenziati i trasporti pubblici.

Deve essere sottolineato che questa azione programmatica si avvalse del contributo di straordinari uomini di cultura che collaborarono attivamente a quella straordinaria esperienza. Antonio Cederna, Italo Insolera, Adriano La Regina, solo per fare alcuni nomi erano gli interlocutori di un altrettanto prestigioso gruppo di intellettuali interni al Partito comunista italiano impegnati nell’opera di governo della città: Renato Nicolini, Maria Michetti, Piero Della Seta, ad esempio. Sulla base dei cinque punti programmatici prima sintetizzati, l’azione di governo si svolse con una riconosciuta efficacia, anche perché –è bene sottolinearlo- la spinta sociale accompagnò sempre l’azione amministrativa. Nel giro di pochi anni borghetti e baraccamenti furono cancellati da ogni parte della città. E, parallelamente, l’indispensabile azione per realizzare le case popolari necessarie ad ospitare i senza tetto portarono ad esperienze di grande interesse come la costruzione in soli due anni di Tor Bella Monaca, quartiere di oltre 20 mila abitanti. A questa azione che guardava alla periferia si aggiunse il particolare contributo di Petroselli. Eletto sindaco nel settembre del 1979 mandò subito un messaggio inequivocabile iniziando la demolizione di via del Foro romano che collegava la via dei Fori imperiali con via della Consolazione. Il grande sogno del parco archeologico centrale sembrava finalmente diventare realtà.

Ma torniamo alle date. Petroselli assume la guida del Campidoglio ad un anno di distanza dall’assassinio di Aldo Moro e nel pieno di anni di piombo che obbligarono all’emergenza e non lasciarono spazio alla quotidiana amministrazione. Nel decennio di vita delle giunte di sinistra capitoline (1976 – 1985) ci furono 48 vittime del terrorismo; migliaia di scontri violenti e assalti alle sedi dell’esercizio della democrazia, in particolare di matrice neofascista. Un mese dopo l’elezione di Giulio Carlo Argan a sindaco, nel luglio 1976 venne ucciso il giudice Vittorio Occorsio che indagava proprio sui gruppi eversivi di destra. Questa tragica stagione fu il prologo sanguinoso della restaurazione proprietaria che iniziò proprio dal breve periodo di guida del Campidoglio da parte di Petroselli.

Nel gennaio 1980 una sentenza della Corte Costituzionale dichiarava incostituzionale la legge che consentiva l’acquisizione di aree da destinare a servizi pubblici e case popolari a prezzi che non tenevano conto dalla rendita urbana. E’ da lì che inizia la lunga e perdurante involuzione culturale dell’urbanistica contrattata: invece di reagire e tentare di ripristinare su un altro piano la primazia dell’azione pubblica, la sinistra preferì accettare il dominio della rendita parassitaria che sta soffocando il paese. Il ritorno ad un passato di dominio delle classi proprietarie di matrice ottocentesca è ben rappresentato proprio dall’esito della vicenda di Tor Bella Monaca. I proprietari delle aree (famiglia Vaselli) fecero una serie di ricorsi contro l’ammontare dell’entità di esproprio dopo la realizzazione del quartiere e proprio sulla base della sentenza della Corte: ebbero riconosciuto un risarcimento di alcune centinaia di milioni di euro. L’urbanistica pubblica concludeva il suo periodo più positivo proprio a partire dall’anno della scomparsa di Petroselli.

E’ in questa vicenda strutturale, oltre ovviamente nella tragica azione di stragi e terrorismo, che bisogna ricercare il declino delle idee della sinistra in Italia in cui ancora ci dibattiamo. Rinunciare a governare le città in nome degli interessi pubblici e delle classi più svantaggiate fu l’inizio di una involuzione culturale di cui portiamo ancora i segni. Quella sentenza infatti poteva essere ragionevolmente contrastata attraverso una intelligente azione legislativa parlamentare: invece dal 1980 iniziò la fase dell’urbanistica liberista, dei “diritti edificatori” e delle compensazioni urbanistiche e le amministrazioni pubbliche furono lasciate in balia della rendita parassitaria.

E’ in questo periodo complesso che operarono le ultime giunte comunali convinte che con l’urbanistica si potesse perseguire il sogno di una città più giusta. Petroselli affermava che “occorreva colmare la distanza tra il centro e le periferie urbane”. Molti atti di quelle amministrazioni furono finalizzati al raggiungimento di quel grande obiettivo e se la restaurazione neoliberista ha impedito quel sogno è venuto il momento di riprendere il cammino interrotto riprendendo le grandi idee su cui si basava il governo urbano della sinistra.

Paolo Berdini
Roma 2 aprile 2016

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